1. Le scoperte psicologiche nella psicanalisi e l'orientamento verso il concreto

Quel che caratterizza una scienza è una certa saggezza riguardante un determinato campo, e, grazie a tale saggezza, un certo potere sulle cose che appartengono a quel dato campo. Non esiste una scienza feconda là dove non si ritrovano queste due caratteristiche della saggezza e dell'efficacia. Prendete un fisico: egli conosce dei misteri sbalorditivi e farà apparire dinanzi a voi dei miracoli che oltrepassano tutto quanto di più ardito avrebbero potuto immaginarsi dei maghi. Parlate con un chimico: egli vi insegnerà delle cose che vi lasceranno stupefatti, e osservatelo mentre lavora; il più famoso occultista vi sembrerà allora povero di coraggio e di immaginazione. Ed anche se la natura vi interessa soltanto in modo mediocre, resterete ugualmente sbalorditi dalla saggezza e dal potere di questi uomini.

Prendete ora uno psicologo. Egli vi intratterrà sulle pretese della psicologia. Vi racconterà la storia penosa della sua scienza. Imparerete che si è giunti a eliminare la nozione di anima, la teoria delle facoltà. E se gli chiedete di che cosa egli si occupa, vi parlerà della vita interiore. E se insistete ancora, apprenderete l'esistenza delle sensazioni, delle immagini, dei ricordi, dell'associazione delle idee, della volontà, della coscienza, delle emozioni, della personalità e di altre nozioni di tal genere. Egli vi spiegherà che le immagini non sono degli atomi psichici, ma degli stati piuttosto «fluidi»; che l'associazione delle idee, lungi dallo spiegare tutto, non è che uno stato di bassa tensione, e che voi non piangete perché siete tristi, ma siete tristi perché piangete. E se siete stati bene attenti, egli vi insegnerà che la vostra personalità è una sintesi. E voi vi troverete, certamente, arricchiti di un certo numero di mezzi di espressione, ma guardatevi bene dall'esprimere il desiderio di «penetrare più a fondo nella conoscenza dell'uomo», perché per guarirvi da simili speranze romantiche vi si manderà in un laboratorio di psicologia sperimentale affinché possiate farvi un'idea della scienza «quale essa deve essere». E là, ancora una volta, imparerete cose sensazionali. Non vi si farà alcuna obiezione a proposito della vostra riserva sull'interesse propriamente psicologico della fisiologia delle sensazioni. Ma vi si insegnerà, invece, che voi siete capaci di associare più o meno in fretta, e che esiste uno sport che consiste nel tenere a mente delle cifre non in serie e nel servirsi del pneumografo per preparare l'esame per il diploma di studi superiori. E se voi chiedete nuovamente di essere iniziati maggiormente alla conoscenza dell'uomo, vi si risponderà col candore di un santo che la scienza è fatta di pazienza, che con il progresso della tecnica sperimentale e con un genio sintetico del tipo di Newton ...

Voi avete ragione: lo psicologo non sa nulla o non può nulla. Egli è il parente povero nella grande famiglia dei servitori della scienza. Egli si nutre soltanto di speranze e di illusioni: agli altri lascia la materia, ed egli si accontenta, da parte sua, della forma, poiché, al di là di tutte le sue miserie, egli è ancora un esteta. Perché avere dei falsi riguardi? Gli psicologi non hanno fatto nulla, se non sostituire ad una sorta di fantasticheria una fantasticheria diversa, ad uno schema un altro schema, ed è tutto, è realmente tutto. La conoscenza dell'uomo? Ma tutto ciò viene relegato o nel campo dei falsi problemi o nel campo delle speranze lontane. Credo che non si possa provare per l'edificio centrale della psicologia un interesse diverso da quello che anima generalmente quegli studi nei quali l'interesse riguarda semplicemente il fatto che, procedendo nella nostra erudizione, seguiamo con simpatia la sorte di una idea o di una nozione qualsiasi. D'altronde, ci si può render conto di ciò attraverso la stessa storia della psicologia. Essa non ci parla mai di nessuna scoperta: ma è interamente costituita dalle fluttuazioni di un lavoro nozionale che viene applicato ad un tessuto di problemi che è sempre identico a se stesso, e questo è un segno molto brutto per una disciplina che ha delle pretese scientifiche. Nel corso della storia della psicologia l'unica cosa che abbiamo visto mutare è il linguaggio usato, ed altresì l'accento che veniva spostato ora su questa ora su quella questione. Ma lo psicologo si comporta, davanti a un uomo, altrettanto stupidamente quanto l'ultimo degli ignoranti e, cosa curiosa, la sua scienza non gli serve a nulla quando egli si trova di fronte a quello che dovrebbe essere il suo soggetto, ma gli serve soltanto ed esclusivamente quando egli si trova insieme a dei «colleghi». Egli si trova dunque esattamente nella stessa posizione in cui si trova il fisico scolastico: la sua scienza non è altro che una scienza di discussione, una eristica. La prima cosa che colpisce nella psicanalisi, è il fatto che lo psicologo può acquisire, con essa, una reale saggezza. Oh! parlo soltanto del sapere professionale, ma uso il termine saggezza per sottolineare come, per la prima volta, la psicologia vada oltre il piano del linguaggio per cogliere qualcosa del mistero che sta racchiuso nell'oggetto del suo studio. È la prima volta che lo psicologo sa, è la prima volta che egli appare — arrischio il termine, poiché esso significa qualche cosa di essenzialmente «positivo» — come un mago.

Il fisico ha del prestigio presso il pubblico, poiché il suo sapere, così efficace, lo fa apparire come il legittimo successore del mago, il quale, d'altronde, di fronte a lui non appare altro che come un timido precursore. E lo psicanalista acquista del prestigio presso il pubblico per ragioni analoghe. Egli appare infatti come il legittimo successore degli oniromanti, dei leggitori di pensieri e delle pitonesse, i quali tutti, in confronto a lui, sono soltanto degli istrioni. E la possibilità di parlare in modo così parallelo di entrambi, cioè del fisico e dello psicanalista, a causa delle ragioni sulle quali riposa il loro prestigio, segna, nella storia della psicologia, una tappa ben più «positiva» di quella costituita dall'uso di tutti quegli apparecchi che sono emigrati dai laboratori di fisiologia per popolare quelli degli psicologi. Infatti, come nel caso del fisico, l'efficacia pratica del sapere dello psicanalista è rivelatrice del fatto che ci troviamo in presenza di vere scoperte.

La scoperta del significato del sogno è una di queste, mi riferisco cioè alla scoperta del significato concreto e individuale del sogno. La scoperta del complesso di Edipo, tanto screditata dagli avversari di Freud, è un'altra. Confrontate la psicologia dell'amore quale essa risulta del freudismo con tutto ciò che la psicologia classica, ivi compreso Stendhal, può insegnarvi su questo argomento; fate questo paragone dal punto di vista della possibilità che l'una e l'altra vi offrono di capire un caso concreto, e rimarrete stupefatti dalla differenza. E non parlo affatto, intenzionalmente, del valore terapeutico, tanto discusso, del trattamento psicanalitico. Mi pongo soltanto dal punto di vista dell'apporto di sapere che la psicanalisi è in grado di fornire alla psicologia. Certamente, le scoperte della psicanalisi non fanno altro che tradurre in formule scientifiche un certo numero di osservazioni che si possono ritrovare presso i letterati di ogni specie e di tutti i tempi. Ma la ragione sta nel fatto che la psicologia ufficiale, che è l'erede, da un lato, della teologia dell'anima, e dall'altro di certe teorie antiche sulla percezione, e più tardi della psicologia filosofica, scaturita da entrambe le prime contemporaneamente, fu completamente assorbita da attività nozionistiche. È così accaduto che la vera psicologia si sia rifugiata nella letteratura e nel dramma; essa è dovuta vivere ai margini della psicologia ufficiale, e persino al di fuori di essa, allo stesso modo in cui la fisica sperimentale è dovuta vivere, agli inizi, ai margini della fisica speculativa, ufficiale. E ciò si può anche spiegare; perché il concreto potesse finalmente parlare è stato necessario che si rivelasse il carattere illusorio dei lavori puramente nozionistici portati sul vecchio tema dell'anima e della percezione; è stato poi necessario che si dissolvesse la speranza di trovare la pietra filosofale servendosi della chimica moderna, cioè di trasformare, mediante l'applicazione dei metodi scientifici, la vecchia psicologia o le sue fantasticherie in una scienza positiva; ed è stato necessario, infine, che si logorassero certi valori nelle loro diverse incarnazioni.

1. Ma questi non sono dei semplici giudizi di valore: analizzando il contrasto che abbiamo appena fatto rilevare, potremo scoprire nella psicologia classica la necessità dell'ignoranza, così come nella psicanalisi la necessità del sapere. E dimostreremo ciò con l'esempio del sogno.

Freud si è concesso il lusso di dedicare il primo capitolo della Traumdeutung alla cronistoria del problema del sogno. All'esposizione egli unisce delle osservazioni critiche che debbono giustificare il suo intervento nella questione, ed è difficile non scorgere in questo capitolo il viaggio di un uomo che vede nel paese di coloro che non hanno visto nulla. Freud, d'altronde, presenta le sue critiche in un tono modesto: tutto quel che vuole è far sentire come, dopo tutte le cose che sono state dette sul sogno, ve ne siano ancora altre da dire, o, meglio, come l'essenziale non sia stato detto, dal momento che la questione, finora, è sempre stata trattata con troppa leggerezza. Mettendo a confronto, d'altra parte, i diversi lavori, egli ottiene il quadro delle difficoltà che devono essere risolte da una teoria dei sogni. La teoria che Freud considera come la più caratteristica, in quanto esprime l'opinione più diffusa, è la teoria del risveglio parziale, secondo la quale il sogno è, come dice Herbart (citato da Freud, p. 106) «un risveglio graduale, parziale, e nello stesso tempo fortemente anormale». E troviamo in Binz la traduzione fisiologica di questa concezione: «Questa condizione (di torpore, Erstarrung) si avvia alla fine nelle prime ore del mattino, ma solo gradualmente. I prodotti della fatica che si sono accumulati nell'albume del cervello diminuiscono gradualmente; una quantità sempre maggiore viene decomposta o eliminata dall'incessante flusso di sangue che scorre. Qui e là gruppi separati di cellule cominciano a svegliarsi, mentre lo stato di torpore persiste ancora intorno a loro. Il lavoro isolato di questi gruppi separati appare allora alla nostra coscienza annebbiata, senza il controllo delle altre parti del cervello che regolano il processo di associazione. Per questo motivo le immagini prodotte, che corrispondono per la maggior parte a impressioni materiali del passato più recente, vengono messe insieme in maniera incoerente e disordinata. La quantità di cellule cerebrali liberate aumenta costantemente e l'insensatezza dei sogni diminuisce corrispondentemente» (Binz, citato da Freud, p. 106). «Questa concezione del sognare come di uno stato di risveglio incompleto e parziale si può trovare certamente negli scritti di tutti i moderni fisiologi e filosofi».

Questa teoria rappresenta l'antitesi della concezione freudiana. Essa fa del sogno un qualcosa di puramente organico, e, in ogni caso, un fenomeno puramente negativo, un difetto, «che spesso è anche», come dice Binz, «un processo patologico». Per Freud, invece, «il sogno è un fatto psicologico nel senso della parola». Diventa dunque essenziale esaminare l'atteggiamento di Freud nei confronti di tale teoria.

«Ma descrivere il sogno, che dopo tutto quanto è stato detto e fatto resta una funzione della mente, come un processo somatico, implica anche un altro significato. Si vuole cioè mostrare che i sogni non sono degni di essere allineati tra i processi psichici. Il sognare è stato spesso paragonato "alle dieci dita di un uomo che non sa nulla di musica, che vagano sulla tastiera di un pianoforte"; e questo paragone mostra meglio di ogni altro la specie di opinione che hanno del sogno i rappresentanti delle scienze esatte in genere. Secondo questa concezione un sogno sarebbe qualcosa di completamente insuscettibile di interpretazione; infatti come potrebbero le dieci dita di un suonatore non musicale produrre un brano di musica?» (p. 107).

Con questo Freud vuol dire che il sogno viene sistematicamente considerato come un avvenimento che non rientra nella serie dei processi psicologici regolari, e che ci si rifiuta di attribuire la formazione del sogno ad uno qualsiasi di tali processi. Il sogno appare non come una formazione psichica regolare, come un pensiero nel vero senso della parola, ma come un fenomeno che, nonostante la sua regolare periodicità, rappresenta, quanto alla struttura, un'eccezione. La teoria classica, invece di inchinarsi dinanzi all'originalità e alla complessità del sogno, e di ricercare i processi che ne diano una spiegazione, si ostina a considerarlo come una deroga alle regole del lavoro psicologico normale, come un fenomeno per così dire negativo.

Nella Traumdeutung è ovunque presente questa visione dell'insufficienza delle teorie organiche, e dovunque è evidente che Freud intende appunto colmare questo limite delle teorie classiche, cercando di dimostrare come il sogno sia un fenomeno positivo, una formazione psicologica regolare, dal momento che, anziché dover la propria esistenza ad una specie di scompiglio e di sbandamento delle funzioni psichiche, lo si può spiegare soltanto attraverso tutto un insieme di processi regolari e complessi.

Si può dunque pensare — e le formule della Traumdeutung ce ne offrono spesso l'occasione — che quella che Freud rivendica per il sogno sia semplicemente la dignità di fatto psicologico nel senso classico della parola, e che, quando egli dice che il sogno è un fatto psicologico nel pieno senso della parola, il sogno venga integrato nella psicologia senza che ciò comporti delle conseguenze per la definizione stessa del fatto psicologico. Ma, in realtà, le cose non stanno così, e non possono stare così. Quella volontà di rifiutare al sogno la dignità di fatto psicologico, e soprattutto il modo in cui lo fa la teoria del risveglio parziale, non è né una semplice sbadataggine, né una conseguenza naturale della dialettica della psicologia fisiologica. Infatti la psicologia fisiologica lavora servendosi delle nozioni e dei procedimenti della psicologia introspettiva classica, e se il problema del sogno viene da essa risolto in un modo così sbrigativo e semplicistico, il motivo sta nel fatto che, nel campo del sogno, le categorie di quest'ultima diventano inutilizzabili, e la teoria criticata da Freud non è altro, in fondo, che la traduzione in linguaggio dogmatico dell'impossibilità di affrontare il problema del sogno partendo da questo punto di vista e dalle nozioni della psicologia classica. La teoria di Binz, in conclusione, ci rivela il fatto che, se si definisce il fatto psicologico alla maniera della psicologia classica, e se si fa uso delle stesse nozioni di cui questa si serve, diventa impossibile vedere nel sogno un fatto psicologico, nel vero senso della parola.

Dovrebbe dunque essere cosa sorprendente che Freud possa dire, da un lato, che il sogno è un fatto psicologico nel senso pieno della parola, poiché la sua formazione, lungi dal potersi spiegare come una specie di scompiglio e di sbandamento delle funzioni psichiche, è dovuta a tutto un insieme di processi regolari e complessi, e assimilabili, a causa di ciò, ai processi del pensiero durante la veglia, e che, dall'altro lato, l'espressione «fatto psicologico» possa mantenere il proprio antico significato. Ma, di fatto, accade il contrario. Infatti Freud rivendica per il sogno la dignità di fatto psicologico soltanto per il fatto che egli riesce a dimostrare la presenza, alla base di esso, di processi originali, ma regolari. Ora, egli ritrova tali processi soltanto perché parte dall'ipotesi secondo cui il sogno ha un significato. È dunque grazie a questa ipotesi che il sogno potrà venire reintegrato nella sua qualità di fatto psicologico. Soltanto, questa ipotesi costituisce già di per sé una rottura col punto di vista della psicologia classica, dal momento che quest'ultima si pone dal punto di vista formale e si disinteressa del significato. Il problema del sogno non potrebbe mai venir risolto dalla psicologia classica, per il fatto che può esserlo soltanto a condizione che si accetti l'ipotesi del significato. E Freud parte appunto da questa ipotesi e scopre che il sogno è un fatto psicologico in quanto ha un proprio meccanismo. Ma, con la sua ipotesi iniziale, egli è uscito dalla psicologia classica; e dal momento che questa

rottura è gravida di conseguenze, la formula che noi abbiamo già così spesso citato, e che vorrebbe rappresentare, in qualche modo, il rientro di Freud in seno alla psicologia classica, consacra, di fatto, la rottura con la definizione classica del fatto psicologico. Noi restiamo, insomma, ad un fenomeno che è ben conosciuto nella storia delle scienze: uno schema classico di interpretazione viene ad urtare contro una «anomalia», che si rivela, alla fine, come un «fermento dialettico» potentissimo, e che finisce con lo spezzare lo schema classico per diventare il punto di partenza di una visione del tutto nuova: il sogno ha opposto alla psicologia classica la stessa resistenza che l'elettricità ha opposto al meccanismo dei fisici del XIV secolo, e sta per diventare, com'è successo con l'esperimento di Michelson nei confronti delle teorie della relatività, il punto di partenza di una visione nuova dell'universo della psicologia. Comunque sia, è evidente, da questa critica delle teorie organiche, che noi dobbiamo trovare nella Traumdeutung una nuova definizione del fatto psicologico, che sia irriducibile a quella a cui la teoria classica ci aveva abituato.

2. Questa nuova definizione possiamo scoprirla paragonando il modo in cui il problema del sogno viene affrontato, da un lato, dalla teoria organica, e, dall'altro, da Freud. La teoria del risveglio parziale considera gli elementi del sogno da un punto di vista astratto e formale. Dal punto di vista formale, perché non presta alcuna attenzione all'individualità del sogno, che è data dal suo significato, e prende in considerazione i suoi elementi soltanto in quanto essi siano una realizzazione delle nozioni scolastiche di cui si servono gli psicologi nel loro lavoro. Dal sogno si trarranno dunque soltanto degli insegnamenti che hanno a che fare con tali categorie, e si parlerà così delle immagini nel sogno, degli stati affettivi ecc., ponendosi sempre dal punto di vista di quelle categorie, e, se il contenuto compare, è soltanto per poter essere classificato in generale. Si dirà, ad esempio, che il sogno è ricco di ricordi dell'infanzia, ma gli psicologi, che pure avevano constatato questo fatto, hanno creduto di potersela cavare in modo sbrigativo parlando dell'«ipermnesia» del sogno. E dal punto di vista astratto, perché il sogno e i suoi elementi vengono presi in considerazione in se stessi, cioè come se il sogno fosse semplicemente un insieme d'immagini proiettate su di uno schermo. È vero che viene fatta l'ipotesi di uno schermo speciale: la coscienza o la vita interiore, e di un proiettore speciale: il cervello; ma il procedimento esplicativo ha esattamente la stessa struttura che avrebbe se si trattasse di spiegare quello che accade su di uno schermo cinematografico: si tratta cioè di spiegare un insieme di processi che, nel modo in cui si producono, rappresentano il fenomeno nella sua completezza, e si tratta di spiegarli semplicemente in quanto processi, presupponendo cioè la presenza di cause meccaniche. L'insieme di questo procedimento è ciò che noi chiamiamo astrazione. Essa comincia col distaccare il sogno dal soggetto di cui è il sogno, e lo considera non come fatto dal soggetto, ma come prodotto da cause impersonali: essa consiste nell'applicare ai fatti psicologici lo stesso atteggiamento che noi adottiamo per la spiegazione dei fatti oggettivi in generale, cioè il metodo della terza persona. In breve, l'astrazione elimina il soggetto ed assimila i fatti psicologici ai fatti oggettivi, cioè a quei fatti che esistono alla terza persona.

Il sogno diventa così una collezione di stati in sé, un insieme di stati alla terza persona. Senza alcun rapporto col soggetto che sogna, il sogno è, per così dire, sospeso nel vuoto; è una specie di risonanza che nasce per caso e che muore quando la sua energia è esaurita. La spiegazione non può più essere propriamente psicologica, e si cercherà di venirne a capo con degli schemi che non hanno più nulla a che vedere con l'atto del soggetto, della prima persona; donde tutti i paragoni che vengono fatti col caleidoscopio, ed anche la metafora della tastiera su cui si suona a casaccio.

Ciò che caratterizza, al contrario, il modo in cui Freud affronta il problema del sogno, è il fatto che egli non compie nessuna astrazione. Egli non vuole creare un distacco fra il sogno e il soggetto che sogna; non vuole concepirlo come uno stato alla terza persona, non vuole collocarlo in un vuoto privo del soggetto. Solo ricollegandolo al soggetto cui appartiene il sogno egli vuole restituirgli il suo carattere di fatto psicologico.

Il postulato di tutta la Traumdeutung, e cioè che il sogno è la realizzazione di un desiderio, la tecnica di interpretazione che è appunto l'arte di ricollegare il sogno al soggetto che ha sognato, ed infine tutta la Traumdeutung, che è lo sviluppo, l'articolazione, la dimostrazione e la riduzione a sistema della tesi fondamentale, ci mostrano come Freud consideri inseparabile dall'io il sogno che, essendo per sua essenza una «modulazione» di tale io, vi si ricollega intimamente e ne è l'espressione.

Il procedimento che abbiamo trovato alla base della teoria organica non è peculiare ad essa soltanto: la ritroviamo altresì nelle cosiddette teorie psicologiche del sogno. E ciò è naturale, dal momento che la psicologia fisiologica non è altro che una trasposizione della psicologia introspettiva classica. Quando Dugas, per esempio, dice che «il sogno è l'anarchia psichica affettiva e mentale, è il gioco delle funzioni abbandonate a se stesse ed esercitantesi senza controllo e senza scopo; nel sogno lo spirito è un automa intelligente» (citato da Freud, p. 88), ci ritroviamo di fronte al punto di vista astratto che consiste nel concepire i fatti psicologici come delle entità in se stesse nel vero senso della parola, e nel realizzarli al di fuori della persona di cui essi sono le manifestazioni. Ponendosi così al di fuori dell'attività della prima persona, è naturale che Dugas trovi soltanto dell'automatismo funzionale. Questa teoria, che ricorda molto da vicino la teoria del risveglio parziale, è la più astratta di tutte le teorie psicologiche del sogno, però l'astrazione si ritrova in tutte, anche se in gradi diversi, in modo nettamente percepibile. D'altronde non solo l'astrazione si ritrova in tutte le teorie, anche psicologiche, del sogno, ma essa costituisce la caratteristica fondamentale di tutta la psicologia classica. Questa, infatti, va alla ricerca di processi per così dire «autonomi», in quanto cioè vengono descritti non in termini di azioni della prima persona, ma in termini meccanicisti; essa, nel suo lavoro, fa uso di nozioni che corrispondono ai fatti psicologici considerati al di fuori della loro relazione costitutiva con la prima persona, e che servono in seguito come punto di partenza per i tentativi di spiegazione meccanica, nei quali viene fatto uso soltanto di schemi alla terza persona e dove la prima persona non ricompare mai più.

La teoria più rappresentativa di questa astrazione è evidentemente la teoria delle facoltà dell'anima. La prima persona viene spezzettata in diverse facoltà, ed i fatti psicologici non sono più le manifestazioni dell'io: essi provengono da facoltà indipendenti che non sono e non possono essere altro che delle entità alla terza persona. Ma la psicologia moderna, che afferma di aver superato la teoria delle facoltà dell'anima, si trova esattamente nella stessa situazione. Le impostazioni che la teoria delle facoltà ci ha lasciato in eredità sono state accuratamente conservate (salvo il fatto che invece di facoltà si parla di «funzioni») e, insieme ad esse, il procedimento fondamentale che sta alla loro base. Le nozioni che sono attualmente di moda: coscienza, tendenza, sintesi, «atteggiamenti», ecc., sono nozioni che infrangono la continuità dell'io nello stesso identico modo delle facoltà dell'anima, ed aprono, nello stesso modo, la possibilità dell'uso degli schemi in terza persona. Tutt'al più si può dire che certi psicologi hanno avuto la sensazione della necessità di ritornare all'io ed agli schemi in prima persona, ma si sono fermati solo a tale «sensazione» e si sono lasciati ghermire da influenze classiche.

D'altra parte, questa volontà di ricollegare il sogno all'io, non è, nella psicanalisi, peculiare alla teoria del sogno. Essa è ovunque presente, in tutti i campi in cui la psicanalisi è stata applicata, come nella teoria delle nevrosi e in quella degli atti mancati, per non parlare delle applicazioni extra-curative. Ciò che la psicanalisi cerca ovunque è la comprensione dei fatti psicologici in funzione del soggetto. È dunque cosa legittima considerare questa come l'ispirazione fondamentale della psicanalisi.

3. Ma qual è il senso preciso di tale ispirazione? Il carattere più evidente dei fatti psicologici è quello di essere «in prima persona». La lampada che illumina la mia scrivania è un fatto «oggettivo», proprio per il fatto che essa è «in terza persona», perché non è un «io», ma un «essa». Dall'altra parte, nella misura in cui sono io che ne sottendo l'essere, la lampada è un fatto psicologico.

Dunque, a seconda della natura dell'atto che la pone, la lampada è o un fatto fisico, o uh fatto psicologico; essa può dunque essere il punto di partenza di due ordini essenzialmente diversi di ricerca, la fisica da un lato, e la psicologia dall'altro. In se stessa (se ciò potesse avere un senso), essa non appartiene né all'una né all'altra. D'altra parte, l'appartenenza all'una o all'altra non può esser resa effettiva attraverso una pura e semplice affermazione verbale, dal momento che è questa appartenenza a dover ispirare il modo in cui la lampada viene concepita, e a dover creare appunto la forma speciale che è richiesta dalla dialettica all'interno della quale essa deve entrare. È così che la lampada sarà per la fisica (o piuttosto per la meccanica) un «sistema materiale», e, precisamente, lo studio propriamente meccanico della lampada diventa possibile esclusivamente sotto questa forma. La stessa cosa accade per la psicologia. La lampada non sarà un fatto psicologico se non nella misura in cui sarà la sua appartenenza all'io ad ispirare la forma che ad essa verrà data, ed occorre che essa assuma una forma speciale in quanto fatto psicologico, allo stesso modo in cui ne ha una in quanto fatto fisico. Esattamente come la fisica, la psicologia deve far subire ai fatti che essa studia una conveniente trasformazione, conforme al suo «punto di vista». È questa trasformazione, ed essa soltanto, che può dotare i fatti di quell'originalità senza la quale non vi sarebbe alcuna ragione di parlare dell'intervento di una scienza speciale.

La base di questa «trasformazione» consiste, in fisica, nel porre i fatti in quanto «terza persona», cioè come un insieme di relazioni reciproche di più termini, relazioni che si determinano completamente le une con le altre: la ricerca va «dalla cosa alla cosa», e ciò è tutto. Una spiegazione meccanicistica, ad esempio, è completamente immanente al piano stesso del processo considerato, una cosa ne determina senza residui un'altra, e questa determina la successiva e così via di seguito: non ci allontaniamo mai da questo piano e tutto si risolve nelle relazioni che si svolgono alla terza persona.

La «trasformazione» propria della psicologia dovrebbe essere precisamente quella che consideri tutti i fatti di cui questa scienza può occuparsi dal punto di vista della «prima persona», ma in modo tale che, per tutto l'essere e per tutto il significato di tali fatti, l'ipotesi di una prima persona sia costantemente indispensabile. L'esistenza della prima persona, infatti, è la sola che spieghi logicamente la necessità di inserire nella serie delle scienze una scienza «psicologica», e se quest'ultima può, come tutte le altre, abbandonare, nel corso della sua evoluzione, quei motivi temporali che le hanno dato origine, non può affatto abbandonare quella relazione con la prima persona che è la sola a poter conferire ai fatti quell'originalità di cui essa ha bisogno. Fra la fisica, «scienza della terza persona», e la psicologia, «scienza della prima persona», non vi è alcun posto per una «terza scienza» che possa studiare i fatti della prima persona in terza persona, e che, spogliandoli della loro originalità, volesse nello stesso tempo rimanere quella scienza speciale che può esser giustificata soltanto dalla relazione che è appunto la stessa che essa rifiuta di accettare.

Ora, appunto la psicologia vorrebbe essere questa «terza scienza». Essa vuol considerare i fatti psicologici in terza persona e, nello stesso tempo, pretende di essere una scienza del tutto originale. Ciò che le permette di compiere un simile miracolo è il suo realismo. La psicologia ordinaria si ispira, assai più di quanto non si possa credere, vista qual'è la terminologia di moda, al vecchio spiritualismo, secondo il quale l'originalità dello spirito è, in un certo qual modo, chimica, nel senso cioè che lo spirito, pur non essendo, come nei materialisti, una forma della materia, viene posto da un atto la cui forma è la stessa di quella dell'atto che pone la materia, ed allora lo spirito si comporta come un altro genere di materia: entrambi cioè, lo spirito e la materia, esistono alla terza persona. Questo realismo è il solo che possa farci capire come i teorici delle localizzazioni abbiano ignorato le obiezioni anche più immediate e conosciute da lungo tempo. Diversamente sarebbe impossibile capire il parallelismo psicofisiologico e il modo in cui ci si è serviti di esso, e, in generale, tutti i sogni della psicologia fisiologica. È ancora questo realismo, infine, quello che spiega la facilità con la quale gli psicologi hanno dimenticato quella che è la relazione costitutiva dei fatti psicologici.

Infatti se lo spirito è, conformemente con l'impostazione del realismo, un tipo originale di materia, la psicologia potrà essere allora una specie di «parafisica» che descrive un mondo speciale, che viene chiamato spirituale, ma che è parallelo al mondo fisico e che non richiede dei procedimenti speciali. Il suo carattere specifico sarà dovuto all'originalità della percezione che tale realismo esige, e si potranno trattare i fatti psicologici allo stesso modo dei fatti fisici, dal momento che l'originalità della percezione costituirà l'affermazione fondamentale che avrà il compito di legittimare tutti quei procedimenti che, considerati in se stessi, sono assurdi. Soltanto, un simile metodo non ha alcuna stabilità scientifica, poiché, visto che l'affermazione iniziale sull'originalità della «percezione psicologica» libera gli psicologi da ogni inquietudine, la relazione costitutiva non compare più del tutto nel lavoro concreto; in conformità col metodo della terza persona, vengono creati e descritti dei processi e delle realtà, e, anche quando ci si è ridotti esclusivamente ad elaborare dei miti, ci si sente sempre rassicurati dall'affermazione iniziale sulla percezione sui generis. E pur dovendo passare attraverso la «percezione», la psicologia e la fisica si incontrano nello stesso oggetto. La psicologia classica allora fa di tutto per poter prendere in considerazione due volte la stessa cosa alla terza persona: prima proietta l'esterno nell'interno, e tenta poi, ma invano, di farlo nuovamente uscire fuori; sdoppia il mondo per farne dapprima una illusione e per cercare, poi, di trasformare questa illusione in una realtà, e alla fine si stanca di questa «alchimia», dichiara che quelli sono tutti falsi problemi, tace castamente oppure si ributta sulle sfumature qualitative e sugli «atti vitali», e, pur professando un profondo disgusto per la metafisica, non fa altro, da cinquant'anni a questa parte, che correre da una metafisica all'altra, dal momento che, per sua natura, non può occuparsi di una questione senza che non scaturisca immediatamente un problema metafisico.

Comunque sia, «non ci si bagna due volte nello stesso fiume», ed è impossibile applicare due volte alle stesse cose il metodo della terza persona, e volere nello stesso tempo ottenere ogni volta un ordine diverso di realtà. O bisogna rinunciare alla psicologia, oppure bisogna abbandonare il metodo della terza persona quando si studiano fatti psicologici. Questi ultimi, infatti, non possono tollerare l'applicazione degli schemi che fanno scomparire la prima persona, e non possono entrare in alcun processo impersonale, dal momento che privare il fatto psicologico del soggetto che lo sottende significa annientarlo in quanto psicologico; e concepirlo in modo tale che lo schema della concezione implichi una rottura nella continuità dell'io può portare soltanto ad una mitologia.

La psicologia classica ignora tali esigenze, e gli psicologi non si sono accorti che privare i fatti psicologici dell'io significa annientarli; e che, di conseguenza, ogni teoria che sia fondata su simili procedimenti non può essere altro che una pura e semplice fantasticheria.

Ci si obietterà, forse, che sfondiamo delle porte aperte, dal momento che la psicologia considera i fatti psicologici appunto come le manifestazioni di una coscienza individuale. E vi è della verosimiglianza in tale obiezione, poiché proprio coloro che criticano la psicologia classica in modo risoluto e rigoroso le rimproverano precisamente di rinchiudersi nei fatti della coscienza individuale. «Certi autori, dice Spranger, limitano la psicologia in modo rigoroso al soggetto, cioè agli stati e ai processi che sono propri di un io individuale ...» e rimprovera in seguito alla psicologia classica di mantenere il soggetto in questo isolamento artificiale, invece di ricollegarlo «a tutti gli aspetti, sul piano storico e sociale, che assume lo spirito umano». Ma bisogna intendersi. Spranger ha perfettamente ragione di fare questo rimprovero alla psicologia. Ma è perché egli si pone da un punto di vista assai diverso dal nostro. Quella che egli auspica è una psicologia che studierà i modi diversi in cui l'uomo si introduce nelle molteplici reti dei «valori», o, se si preferisce, i collegamenti che ne derivano per l'uomo. Quella che noi abbiamo chiamato astrazione apparirà allora a Spranger sotto una luce speciale. Dal momento che l'astrazione consiste nel considerare i fatti psicologici come degli stati in sé, e visto che Spranger si pone dal punto di vista delle «forme vitali», egli rileverà essenzialmente l'isolamento nei confronti delle forme oggettive, e vedrà in questo isolamento una conseguenza della limitazione della psicologia all'individuo. E non si è accorto, invece, che la limitazione della psicologia allo studio dei fatti puramente individuali è soltanto verbale.

I Di fatto, una volta che la psicologia ha affermato che la sua sfera è costituita dagli avvenimenti dell'io, non sa più che farsene di questo io e, in realtà, non se ne fa nulla. Infatti, divenuta fenomenista in conseguenza della rovina della psicologia razionale, essa non studia più nulla che non sia la molteplicità dei «fenomeni». Hume, per lo meno, è stato franco: ha detto apertamente che l'io consiste esclusivamente in questa molteplicità. Ma gli psicologi moderni non possono decidersi ad enunciare chiaramente le conseguenze fondamentali del loro atteggiamento, e vorrebbero pur dare un senso all'io.

Esistono, a questo proposito, diverse impostazioni. Si può ricorrere, ad esempio, allo schema della riflessione. L'io è allora la causa dei fatti di coscienza, ed allo stesso tempo è il soggetto dell'introspezione: è quello che guarda e ciò che è guardato. Il più delle volte, d'altronde, l'io è semplicemente, all'inizio, il luogo dei fatti psicologici, e, alla fine, la loro sintesi. Comunque sia, l'io rimane sempre astratto. Esso è, da una parte, una semplice causa, un puro centro funzionale, e, dall'altra, un occhio nello schema della riflessione; non è nulla più che una parola che serve a nascondere l'ingenuo realismo nella seconda ipotesi, e un fascio di funzioni astratte nella terza. La psicologia classica parla dunque dell'io, ma parla dell'io da una parte e dei fatti psicologici dall'altra. Infatti, fintantoché studia i fatti psicologici, essa li tratta come se fossero alla terza persona, e solo in seguito impone a se stessa l'obbligo di ricollegarli ad un soggetto. Ma è incapace di trovare una relazione che possa compiere un simile miracolo. Si rifugia allora nella qualità e conserva la propria individualità solo più sul piano qualitativo: l'appartenenza all'individuo dei fatti psicologici si manifesta allora soltanto nell'irriducibilità qualitativa dell'atto nel quale essi sono vissuti. A parte questa sottolineatura ad opera della qualità, i fatti psicologici vengono trattati come se fossero dei fatti alla terza persona.

Essi non sarebbero tali se la loro appartenenza al soggetto fosse alla base della forma nella quale vengono concepiti. E ciò potrebbe avvenire soltanto nel caso in cui essi non fossero considerati in se stessi, distinti dal soggetto, ma come gli elementi di un tutto che non possa concepirsi senza il soggetto, cioè come i diversi aspetti dell'atto dell'io.

Qui ci si può obiettare che la psicologia conosce la nostra esigenza e che essa afferma chiaramente che, se si deve parlare di immagini, di emozioni, di memoria e, in generale, di funzioni, lo si fa soltanto provvisoriamente; che se vengono praticati simili spezzettamenti, lo si fa soltanto per i bisogni dell'analisi, dal momento che, in realtà, essi sono le parti di un tutto, ecc. Soltanto, fra l'affermazione di una tesi e la realizzazione dell'atteggiamento ad essa corrispondente corre un abisso. La professione di fede di cui si è parlato significa soltanto che gli psicologi non credono che le funzioni da essi descritte possano realizzarsi ad una ad una, isolate le une dalle altre, ma non significa affatto che l'analisi di un fatto psicologico dal punto di vista del formalismo funzionale non sia una vera analisi psicologica. Ora, qui, si tratta appunto di ciò. La totalità che gli psicologi sono ben disposti ad ammettere nell'uomo non è altro che una totalità «funzionale», un groviglio di nozioni scolastiche. Ora un simile groviglio, qualunque sia il grado della sua complessità, non è un atto, e non presuppone un soggetto, ma è un puro e semplice centro funzionale, dato che non è possibile, con degli elementi impersonali, costituire un fatto personale come l'atto, e la psicologia rimane, con la sua falsa totalità, sul piano dell'astrazione.

E non si dica neppure che quegli spezzettamenti sono stati fatti per le necessità dell'analisi, perché le sue nozioni scolastiche la psicologia le prende a prestito attingendole non sa nemmeno lei dove, ed escogita simili spiegazioni giustificative soltanto quando comincia ad essere preoccupata a causa del concreto. Ma, ad ogni modo, le nozioni fondamentali della psicologia classica non sono certo il risultato della pura e semplice analisi, ma sono il risultato dell'astrazione e del formalismo. In una parola, le nozioni della psicologia non possono essere considerate come gli aspetti di un atto individuale, dal momento che esse non appartengono allo stesso piano dell'io. Si potrà far vedere l'appartenenza dei fatti psicologici all'io solo se ci si K manterrà su questo piano: i fatti psicologici devono essere omogenei all'io, non possono essere altro che le incarnazioni della stessa forma dell'io.

4. D'altronde è immediatamente visibile come queste considerazioni non ci mettano ancora in possesso della «formula» della psicologia. Le esigenze che abbiamo appena formulato sono infatti comuni alla psicologia ed alla teoria della conoscenza, e, in generale, ad ogni analisi della mente. Infatti la conoscenza non può venire spiegata, neppur essa, da schemi alla terza persona. È per questo motivo che Kant non poteva accettare l'associazione di Hume. L'associazione di Hume, infatti, concepita com'è secondo l'immagine dell'attrazione universale di Newton, è un qualche cosa di cieco, che va «dalla cosa alla cosa», e non implica un soggetto. Kant, invece, con la sua teoria della sintesi soddisfa pienamente all'esigenza della prima persona e dell'omogeneità. Perché la sintesi, quale egli la intende, è un atto in prima persona, e le categorie, in ultima analisi, non sono altro che le specificazioni dell'appercezione trascendentale che è la forma pura dell'atto dell'io.

Soltanto, l'io di Kant, pur essendo un «soggetto», è il soggetto del pensiero oggettivo, e quindi universale; la sua scoperta ed il suo studio non solo non richiedono l'esperienza concreta, ma anzi l'escludono, poiché qui siamo e dobbiamo rimanere sul piano della logica trascendentale.

Ora la psicologia, se ha una ragione di essere, non può esistere altro che come una scienza «empirica». Deve dunque interpretare l'esigenza della prima persona e dell'omogeneità in un modo appropriato al suo piano. Dovendo essere empirico, l'io della psicologia non può essere altro che l'individuo particolare. D'altronde, questo io non può essere il soggetto di un atto trascendentale, del tipo dell'appercezione, poiché è necessaria una nozione che stia sullo stesso piano dell'individuo concreto e che sia semplicemente l'atto dell'io della psicologia. Ora, l'atto dell'individuo concreto non è altro che la vita, ma la vita singola dell'individuo singolo, e cioè, in poche parole, la vita nel senso drammatico della parola.

Questa singolarità dev'essere anch'essa definita in modo concreto, e non da un punto di vista formale. L'individuo è singolo per il fatto che la sua vita è singola, e questa vita, a sua volta, è singola esclusivamente per il suo contenuto: la sua singolarità non è dunque qualitativa, ma drammatica._L'esigenza dell'omogeneità e della prima persona potrà allora esser rispettata se le nozioni della psicologia resteranno sul piano di questo «dramma». I fatti psicologici dovranno essere i segmenti della vita dell'individuo particolare.

Segmenti della vita dell'individuo particolare, per dire cioè che tutto ciò che si trova al di sopra o al di sotto del dramma non è più un fatto psicologico «nel pieno senso della parola». Certamente la lampadina è qualcosa che fa parte della lampada, ma non è la lampada in se stessa, e poiché il centro del mio interesse è costituito dalla lampada, anche il posto dove essa si trova, il mio ufficio, è un qualche cosa della lampada. Ma la lampadina è «al di sotto» e l'ufficio è «al di sopra» della lampada, e se ciò che mi interessa è la lampada, mi è proibito rompere l'unità dell'oggetto «lampada»; bisogna, al contrario, ricondurre tutto a questa unità, non abbandonando mai quello che è il suo piano. La stessa cosa vale per la psicologia. Quelli che il soggetto vive sono degli avvenimenti, e il termine «avvenimento» esprime che si tratta del soggetto in tutta la sua interezza. Mio figlio piange perché lo vogliamo mettere a letto. Questo è l'avvenimento. Ma per la psicologia classica non ci troviamo di fronte ad altro che ad una secrezione lacrimale che consegue ad una rappresentazione contrastante con una tendenza profonda. E non è successo nient'altro. È stato dunque abbandonato il piano del «dramma umano» il cui autore è l'individuo concreto, e lo si è sostituito con un dramma astratto. Nel primo caso, l'individuo è qualche cosa di essenziale, mentre nel secondo caso le vere comparse sono impersonali e l'individuo, tutt'al più, svolge il ruolo di impresario. Questo è il vero significato dell'astrazione: la psicologia classica cerca di sostituire il dramma essenziale con un dramma impersonale, il dramma in cui autore è l'individuo concreto, che è una realtà, con un dramma dove le comparse sono costituite da creature mitologiche-. l'astrazione consiste, in ultima analisi, nell'ammettere l'equivalenza di questi due drammi, nell'affermare che il dramma impersonale, quello «vero», spiega il dramma personale che è soltanto «apparente». L'ideale della psicologia classica consiste nella ricerca di drammi puramente «nozionali». Al contrario, la psicologia che accetta la definizione che noi abbiamo enunciato non ammette la sostituzione del dramma impersonale al dramma personale. L'avvenimento, o, se si preferisce, l'atto ' rappresenta per essa il termine dell'analisi, ed è soltanto attraverso l'elemento personale che essa cerca di spiegare l'elemento impersonale. Lo psicologo avrà allora qualcosa in comune col critico drammatico: un atto gli apparirà sempre come un segmento del dramma che non ha altra esistenza se non nel dramma e attraverso di esso. Il suo non sarà dunque un metodo di pura e semplice osservazione, bensì un metodo di interpretazione.

Non è difficile intuire che è proprio in questa direzione che si orienta la psicanalisi. Quello che cerca Freud è il significato del sogno. Egli dunque non si accontenta dello studio astratto e formale dei suoi elementi. Non va alla ricerca di un canovaccio astratto ed impersonale le cui comparse sono delle eccitazioni fisiologiche, ed il cui intreccio è costituito dalla loro scorribanda attraverso le cellule cerebrali. Quello che egli vuole raggiungere attraverso l'interpretazione non è l'io astratto della psicologia, bensì il soggetto della vita individuale, cioè quello che è il supporto di un insieme di avvenimenti unici; l'attore, se si preferisce, della vita drammatica, e non il soggetto dell'introspezione; in una parola, l'io della vita quotidiana. E questo io non interviene come il «proprietario dei propri stati d'animo», oppure come la causa di una funzione generale, ma come l'agente di un atto considerato nella sua singola determinazione. Soprattutto, non ci si riferisce ad una causa priva di senso e di contenuto; ma ad un soggetto che trae la propria qualificazione precisamente dagli avvenimenti, e che si trova tutto intero in ciascuno di quegli avvenimenti. Il sogno è così un segmento della vita dell'individuo particolare: non lo si può dunque spiegare se non lo si mette in rapporto all'io, ma mettere il sogno in rapporto con l'io significa allora determinare il suo significato in quanto momento di un insieme di avvenimenti concatenati, la cui totalità noi la chiamiamo una vita, la vita cioè dell'individuo particolare.

5. La psicanalisi racchiude dunque una nuova definizione del fatto psicologico. Ma questa definizione l'abbiamo introdotta in un modo un po' artificiale, cominciando con l'enunciarla nella sua forma più generale e più astratta. Era necessario cominciare di là, da un lato, per fare apparire, distinguendo le due tappe nel cammino verso il concreto, tutta la precisione e tutta la portata della definizione in questione, dall'altro lato, per mostrare che è possibile mettere in rilievo la falsità di quel procedimento fondamentale della psicologia classica che è l'astrazione, indipendentemente da ogni questione di dottrina. Freud procede in modo più empirico e meno cosciente. Egli non intraprende, e ciò è naturale, un'analisi generale dei procedimenti della psicologia classica, ma si limita a segnalare gli errori delle tesi che da essi derivano, e su quei punti precisi in cui si imbatte in essi. E, allo stesso modo, non mette in risalto tutte le conseguenze del suo atteggiamento e non arriva nemmeno a formulare in termini espliciti quella che è l'ispirazione fondamentale della sua stessa dottrina. Così egli si comporta come se avesse definito il fatto psicologico nello stesso modo in cui l'abbiamo definito noi: si interessa ai fatti psicologici soltanto nella misura in cui sono atti individuali, e rimane nello stesso tempo nella convinzione che la psicanalisi non è rivoluzionaria se non in quanto contributo. Invece di prorogare il punto di vista dell'interpretazione sino al momento in cui possa scaturire una nuova definizione del fatto psicologico, egli lo considera nella Traumdeutung come un punto di vista a sé stante, che non è il punto di vista psicologico, e cerca in seguito, nel capitolo intitolato: «La psicologia dei processi del sogno», di tradurre, ponendosi dal punto di vista «psicologico», i fatti psicanalitici nel linguaggio della psicologia classica.

Ma dal momento che si può giudicare che il modo in cui abbiamo caratterizzato l'ispirazione fondamentale della psicanalisi non è abbastanza persuasivo, cercheremo di verificare la nostra interpretazione mostrando con un esempio concreto come l'atteggiamento di Freud corrisponda perfettamente alla descrizione che noi ne abbiamo fatto, e, poi, come la nostra interpretazione permetta di capire la tenacia con la quale Freud afferma nella Traumdeutung che «il sogno è la realizzazione di un desiderio».

A) Parlando dell'incubo, Freud istituisce lui stesso un parallelo fra il metodo usato nelle spiegazioni classiche e quello usato nella sua.

«Non posso resistere alla tentazione — dice Freud (p. 560) — di citare un divertente esempio del modo in cui i paraocchi della mitologia medica possano impedire all'osservatore la comprensione di tali casi per uno stretto margine. Il mio esempio è tratto da una tesi sul pavor nocturnus di Debacker» (1881, p. 66). Freud cita il caso, ma a noi basterà paragonare fra loro le spiegazioni che forniscono i due autori.

Ecco la spiegazione di Debacker: «Da questa osservazione si possono trarre le seguenti conclusioni:

1) L'influenza della pubertà su un ragazzo di salute delicata può provocare uno stato di grande debolezza e può sfociare in un grado considerevole di anemia cerebrale

2) Questa anemia cerebrale provoca cambiamenti di carattere, allucinazioni demonomaniache e stati d'angoscia notturni (e forse anche diurni) molto evidenti.

3) La demonomania del ragazzo e gli autorimproveri risalgono alle influenze della sua educazione religiosa, che aveva agito su di lui da piccolo.

4) Tutti i sintomi sono scomparsi dopo un prolungato soggiorno in campagna, grazie agli esercizi fisici e al recupero delle forze con la fine della pubertà.

5) Un'influenza predisponente sull'origine dello stato cerebrale del bambino si può forse attribuire all'ereditarietà e ad una passata sifilide del padre».

Freud attira l'attenzione sull'osservazione finale di questo lavoro: «Abbiamo classificato questo caso tra i deliri apiretici di inanizione, poiché ricolleghiamo questo particolare stato all'ischemia cerebrale» (cfr. p. 561).

La spiegazione che dà Freud è del tutto diversa: «Non è davvero difficile dedurre — egli dice (pp. 560-561) — che: 1) il ragazzo si era masturbato quando era più piccolo e probabilmente lo aveva negato ed era stato minacciato di severe punizioni per la sua cattiva abitudine (vedi la sua confessione: "Non lo farò più", il suo diniego "Alberto non l'ha mai fatto"); 2) con la pubertà si era ridestata la tentazione di masturbarsi con il prurito ai genitali; 3) c'era in lui una lotta a causa della repressione che aveva soppresso la libido e l'aveva trasformata in angoscia; e l'angoscia si era impadronita delle punizioni di cui era stato minacciato precedentemente». Qualunque cosa si pensi di quest'ultima spiegazione, è sorprendente il fatto che il medico citato da Freud non faccia ricorso ad altro che a cause generali, come anemia cerebrale, inanizione; che per lui non abbia alcuna importanza la forma particolare del delirio, le scene nelle quali il bambino drammatizzava il suo spavento; che egli, di tutta la scena del diavolo, spiega soltanto lo schema generale e lo fa riferendosi ad una causa generale, l'ambiente religioso; che mai, di conseguenza, egli scende sul piano individuale per capire i fatti nella loro particolarità concreta; che, infine, per riassumere tutto in poche parole, non concede alcuno spazio alle «cause seconde». Freud, al contrario, non abbandona la forma concreta e individuale del sintomo in questione, con tutti i suoi dettagli particolari, e fa intervenire nella spiegazione soltanto dei fatti individuali, tratti dall'esperienza del soggetto in questione. Non abbandona dunque mai il piano dell'individuo singolo.

B) Che lo spirito della dottrina di Freud sia proprio quello che noi abbiamo indicato è dimostrato da quella che è l'affermazione più fondamentale della teoria del sogno, secondo cui cioè «il sogno è la realizzazione di un desiderio». Affermazione sorprendente, certo, dal momento che appare all'inizio del libro, quando ancora il lettore, sotto l'influenza, da un lato, del capitolo dedicato alla cronistoria del problema del sogno, e, dall'altro, del parallelo istituito da Freud stesso fra gli antichi oniromanti e la psicanalisi, è portato a considerare Freud soltanto come colui che, «in generale», sostiene che il sogno ha un significato. Di fatto però la scoperta di Freud ha un significato ben diverso e di ben altra importanza. Egli non è il primo ad affermare che il sogno ha un significato. Parla lui stesso del tentativo fatto da Scherner per approfondire il problema del sogno in tale direzione (cfr. p. 112 ss.).

«Il tentativo più originale e più approfondito di spiegare i sogni come una particolare attività della mente, capace di libera espansione solo durante lo stato di sonno, è stato intrapreso da Scherner nel 1861». Questa «attività particolare» è dovuta ali 'immaginazione, la quale, durante il sogno, «liberata dal dominio della ragione e da ogni controllo moderatore, salta in una posizione di sovranità illimitata» {ibid.).